A che gioco giochiamo?
“Succede sempre così, ogni volta mi ritrovo sempre nella stessa situazione, non capisco come possa succedere!”
Nelle relazioni interpersonali, le persone tendono a riproporre di continuo le stesse interazioni problematiche seguendo degli schemi ben precisi. Perché accade questo? Cosa ne ricaviamo?
Cosa sono i giochi psicologici?
All’interno dell’approccio dell’ Analisi Transazionale si utilizza il concetto di “gioco psicologico” , che fu descritto per la prima volta nel 1964 da Eric Berne all’interno del libro A che gioco giochiamo come “una serie di transazioni ulteriori che conducono ad un tornaconto ben definito”.
Detto in altri termini, un “gioco psicologico” è un’interazione tra persone che utilizzano fra loro messaggi poco chiari e che, dopo una serie di scambi ben definiti e prevedibili, finiscono per provare confusione ed emozioni negative. Sono interazioni disfunzionali utilizzate in modo automatico e al di fuori dalla consapevolezza che impediscono di entrare in relazione e soddisfare il proprio bisogno di intimità in modo costruttivo e autentico.
Prima di addentrarci nello specifico nella dinamica dei giochi, è importante fare un riferimento ad un concetto particolarmente importante per l’Analisi Transazionale, ovvero il concetto di “carezza”.
Che significato hanno le carezze?
Per spiegare il concetto di carezze, Eric Berne descrive alcuni bisogni familiari a tutti gli individui; tra questi, il più arcaico è il bisogno di stimoli, riferendosi con essi sia alle stimolazioni fisiche che a quelle mentali.
Rifacendosi a delle ricerche sullo sviluppo infantile condotte su dei neonati allevati in orfanotrofio, dalle quali emergeva che per i bambini le stimolazioni fisiche e affettive, come le carezze per l’appunto, erano fondamentali tanto quanto la soddisfazione dei bisogni primari (fame, sonno, pulizia), Berne ricondusse il termine carezza al bisogno infantile di essere toccati.
Negli adulti, questo bisogno è ancora presente; tuttavia, crescendo si imparano dei modi per sostituirlo anche con altre forme di riconoscimento, quali ad esempio, un sorriso, un complimento, ma anche un insulto, tutti gesti che segnalano all’individuo di essere stato “visto” e riconosciuto, seppur in modi diversi. Le carezze, dunque, soddisfano quel bisogno di riconoscimenti, innato e naturale, che tutti hanno.
Mentre le carezze positive vengono vissute da chi le riceve come dei gesti piacevoli, quelle negative sono invece spiacevoli. Per quanto sembri paradossale, le persone non sempre sono alla ricerca solo di carezze positive, talvolta ricercano anche quelle negative in quando qualsiasi tipo di carezze è preferibile a non riceverne affatto. Fin dall’infanzia le persone agiscono istintivamente in questo modo.
Immaginiamo ad esempio un bambino che viene trascurato dai genitori poco presenti, e pur di esser “visto” attua comportamenti oppositivi o violenti, ricevendo punizioni anche severe. Questo bambino continuerà a comportarsi così, anche se in risposta ai suoi comportamenti avrà delle carezze negative, se questo sarà l’unico modo per ricevere le attenzioni dei genitori.
Da adulti, tendiamo a riproporre i nostri schemi infantili, e può darsi che continueremo a cercare carezze negative, come facevamo da bambini. Abbiamo infatti bisogno che i nostri simili ci diano segno del fatto che esistiamo, ed un’immagine deteriorata è pur sempre preferibile a una non-esistenza.
Perché giochiamo?
Pur di ricevere carezze, dunque, siamo disposti a mettere in atto i giochi psicologici ingaggiandoci ripetutamente nelle stesse interazioni disfunzionali che ci portano alla fine a vivere emozioni negative, rappresentando queste l’unica modalità conosciuta per nutrire questo bisogno.
Facciamo un esempio di gioco. Giorgio e Flavia si rincontrano dopo un po’ di tempo e si aggiornano reciprocamente sulla propria vita. Giorgio sta vivendo una situazione molto stressante in casa con i suoi genitori: racconta di continui litigi, di una continua invadenza da parte loro e di non farcela più a sostenere tutto questo.
Flavia: “Mi dispiace di sentire questo!”
Giorgio: “Già, non so che fare”
Flavia: “Perché non provi a cercare un appartamento in cui andare a vivere da solo?”
Giorgio: “Magari”, ma non saprei da dove cominciare”
Flavia: “Beh, puoi iniziare a cercare su internet e vedere se si trovano appartamenti in affitto, rivolgerti a qualche agenzia immobiliare”
Giorgio: “Potrei provarci, ma sto ancora studiando, non credo che riuscirei a pagarmi un affitto da solo”
Flavia: “Allora ti aiuto io: puoi venire a stare da me intanto che la situazione migliori!”
Giorgio: “Ti ringrazio moltissimo! So che lo faresti col cuore, però non voglio l’aiuto di nessuno”
Flavia: “D’accordo, ma allora perché non provi a trovare un lavoro nei week-end così da iniziare a mettere qualche soldo da parte per trovare una stanza in affitto con altri studenti”
Giorgio: “E’ un’idea, ma in fondo non è il caso, toglierei tempo allo studio e già sono un po’ indietro con gli esami”
Flavia: “Perché non ti rivolgi a uno sportello di ascolto psicologico per parlare con qualcuno del tuo momento difficile?”
Giorgio comincia ad innervosirsi ed alza leggermente la voce: “Senti, forse non ti è chiara la situazione: ho una famiglia disastrosa, devo pensare agli esami e non posso fare niente adesso”
Flavia, che non si aspettava questa reazione, si mette un sulla difensiva: “D’accordo, cercavo solo di aiutarti …”.
Giorgio, ora completamente innervosito: “E certo, per te è facile con la tua attività già ben avviata puoi permetterti quello che vuoi!”
Flavia, sentendosi accusata: “Scusa, dai, non fare così”
Entrambi a questo punto sono confusi e provano emozioni negative a cui non sanno dare senso con chiarezza.
In realtà entrambi erano pronti a giocare il gioco “Perché non … Sì, ma” e, quando si sono incontrati e inconsciamente hanno riconosciuto tale desiderio di giocare anche nell’altro, hanno giocato la loro partita che prevedibilmente li avrebbe portati a esito finale carico di emozioni negative.
Il triangolo drammatico
Stephen Karpman, psicologo americano, ha ideato il triangolo drammatico, uno strumento utile per descrivere con chiarezza i “giochi psicologici”.
Ogni volta che le persone prendono parte ad un “gioco psicologico” assumono inconsapevolmente uno dei tre ruoli del triangolo drammatico di Karpman: Vittima, Persecutore o Salvatore, non utilizzando pienamente le proprie capacità Adulte.
Chi tende a giocare il ruolo di Vittima, svaluta le proprie capacità di pensare, di sentire e di agire per risolvere i propri problemi. Ad un livello sottostante, giocando questo ruolo, cerca di soddisfare il suo bisogno inconsapevole di ottenere l’attenzione di un Salvatore o di un Persecutore: In questo modo, può dipendere da loro senza doversi assumere la responsabilità di sé e dei propri problemi.
I vissuti tipici della Vittima sono il sentirsi incapace, accusato e senza speranza: “Povero me, non ce la farò mai! Io non vado bene, mentre gli altri sono tutti meglio di me”.
Il Persecutore, tende invece a svalutare le capacità altrui ritenendolo inferiore, incapace e sbagliato, comportandosi in modo critico e controllante. Facendo così, sposterà la propria attenzione sull’altro, evitando di confrontarsi con le proprie insicurezze e paure.
I vissuti tipici del Persecutore sono la rabbia e l’insofferenza: “E’ colpa tua, tu sei sbagliato, io ne capisco di più, quindi farai ciò che ti dico io!”.
Chi gioca nel ruolo di Salvatore svaluta le capacità altrui ritenendolo incapace di risolvere i propri problemi da sé, mentre ritiene sé stesso meglio capace di poterlo fare. E’ molto altruista, si occupa attivamente dei problemi degli altri spesso mettendo i bisogni dell’altro al primo posto. In realtà questo le permette di sentirsi moralmente superiore e di evitare di occuparsi dei propri sentimenti e bisogni.
Il Salvatore prova vissuti di soddisfazione quando riesce ad essere d’aiuto e il senso di colpa quando non vi riesce: “Ti aiuto io, tu hai bisogno del mio aiuto perché non sei capace di prenderti cura dei tuoi bisogni, quindi ti salverò io!”.
Durante un “gioco psicologico” le persone cambiano il proprio ruolo all’interno del triangolo drammatico una o più volte e alla fine tutti i “giocatori” finiscono per provare un vissuto di frustrazione, di impotenza e di mancanza di speranza.
Vediamo cosa è successo nell’esempio precedente con Giorgio e Flavia in termini di triangolo drammatico.
Al momento del loro incontro, Giorgio assume il ruolo di Vittima (“Non so che fare”), mentre Flavia quello di Salvatore, dando immediatamente consigli non richiesti (“Perché non ti cerchi un appartamento?”).
Ad un certo punto, dopo svariati consigli non richiesti, ha luogo uno scambio di ruolo. Giorgio si irrita e dice: “Senti, forse non ti è chiara la situazione: ho una famiglia disastrosa, devo pensare agli esami…”. A questo punto, Giorgio transita dal ruolo di Vittima a quello di Persecutore, e comincia a biasimare la sua amica (“E certo, per te è facile …”).
Allo stesso tempo, Flavia passa dal Salvatore alla Vittima (“Scusa, dai, non parliamone più”).
Entrambi alla fine escono dall’interazione amareggiati e confusi. Ed entrambi, finiscono per sentirsi delle Vittime.
Il gioco “Perché non…si ma! È molto diffuso: la Vittima presenta un problema e il Salvatore propone diverse soluzioni, tutte rifiutate dalla Vittima che risponde ogni volta con un “Si, ma”, potendo andare avanti in questo molto all’infinito prima che il gioco arrivi ad una svolta.
In genere i Salvatori finiscono per cambiare ruolo e per finire nella Vittima (“Mi dispiace, cercavo solo di aiutarti!”) o nel Persecutore (“Ora mi hai stancato!”). Anche la Vittima può cambiare di ruolo e, eventualmente, passare nel ruolo di Persecutore (come nel caso di Giorgio e Flavia: “E certo, per te è facile con la tua attività…”).
La Vittima non sta giocando per ottenere davvero una soluzione al proprio problema, quanto piuttosto per convincere gli altri e dimostrare a se stessa che il proprio problema è irrisolvibile, restando nel ruolo di Vittima.
In una situazione di questo tipo, risulterebbe più costruttivo non partecipare al gioco proposto, quanto piuttosto riconoscere sensibilmente il bisogno dell’altro per poi stimolarlo a trovare una soluzione adeguata per sé: “E’ un problema difficile, mi dispiace. Tu che cosa pensi di fare?”.
Facciamo un altro esempio di gioco: “Prendimi a calci”.
In questo “gioco” c’è una persona che si comporta in modo irritante. Ad esempio, non risponde al telefono, arriva in ritardo, si dimentica un appuntamento.
La persona, in realtà, potrebbe star godendo, sotto sotto, dell’irritazione altrui, perché questo le dà un senso di potere e di controllo. In tal senso esercita un ruolo di Persecutore sugli altri.
Quando ad un certo punto l’altro reagirà arrabbiandosi per questi comportamenti, la persona può risentirsi e chiedersi: “Perché queste cose capitano sempre a me?” sentendosi una Vittima.
Quando vi stanno offrendo un “gancio” per iniziare a giocare questo gioco, invece di attaccare il giocatore, sarebbe più utile affrontare apertamente il problema, dire al giocatore quali dei suoi comportamenti rappresentano delle provocazioni e definire con chiarezza in che modo volete continuare a rapportarvi con lui.
Si può smettere di “giocare” ?
Ho citato solo due esempi di gioco, ma essi sono tanti e svariati e condividono tutti questa dinamica che a un primo acchito sembrerebbe immutabile, proprio perché messa in atto in modo inconsapevole e automatico.
Tuttavia, è possibile iniziare ad evitare i giochi: iniziando a prendere consapevolezza di questo meccanismo si può infatti imparare a prevedere in anticipo il loro esito non prendendovi parte, instaurando così comunicazioni più trasparenti e costruttive.
A tal fine è utile iniziare a chiedersi che ruolo tendiamo abitualmente ad assumere nella relazione con l’altro: “solitamente mi sento più Vittima, Persecutore o Salvatore? Come tendo di solito a vedere me stesso? come potrebbero percepirmi gli altri? “
Qualche consiglio utile per affrontare i tuoi giochi
Se tendi a ritrovarti spesso nel ruolo di Vittima, puoi iniziare a domandarti cosa vuoi realmente e di cosa hai davvero bisogno, per poi iniziare a chiederti quali step potrebbero essere utili per raggiungere il tuo scopo e provare a concretizzarli.
Ciò non significa non accettare l’aiuto degli altri, ma farne tesoro per poi provare a portare avanti i tuoi obiettivi facendo leva sulle tue risorse, riconoscendoti i successi ottenuti, anche quelli più piccoli.
Se il tuo ruolo abituale è quello di Persecutore, potresti iniziare a esprimere in modo più chiaro i tuoi desideri e aspettative, provando a porti con l’altro su uno stesso livello ed esponendo le conseguenze rispetto alle azioni altrui dando diverse opzioni: è giusto difendere i propri confini e i propri bisogni, senza però aggredirlo da una posizione “up” suscitando soltanto nell’altro umiliazione e/o risentimento, che non porterebbe comunque a una risoluzione del problema.
Se tendi a giocare il ruolo di Salvatore, risulta utile stabilire con chiarezza i limiti della tua disponibilità “Ti ascolto, ma potrò dedicarti solo mezz’ora”, così come cercare di non agire al posto dell’altro, incoraggiandolo (una volta convalidata empaticamente la sua difficoltà) a trovare le sue soluzioni in modo autonomo, inviando così anche un messaggio di fiducia nelle sue capacità e risorse. È più costruttivo e funzionale chiedersi “cosa posso fare affinché questa persona possa arrivare ad aiutarsi da solo?” o chiedere all’altro “di cosa avresti bisogno? Che opzioni potresti trovare per risolvere il tuo problema?”.
Concludendo
Non è sempre così semplice arrivare ad auto-osservarsi in modo consapevole, proprio perché queste modalità ci hanno in qualche modo definiti e sono diventate parte di noi stessi, facendoci comunque ricevere un qualche tipo di carezza (anche se negativa). Per questo motivo non è facile allontanarsene ed abbandonare i ruoli in cui abbiamo imparato a giocare.
Alla luce di ciò, con l’aiuto di un esperto all’interno di un percorso psicologico, potrai essere accompagnato, con i tuoi tempi, a iniziare a vedere e comprendere quali sono i tuoi giochi “preferiti”, così da acquisirne maggiore consapevolezza e iniziare a smettere di giocare, iniziando a vivere relazioni più autentiche e soddisfacenti.